Quando il corpo non basta più
Negli ultimi mesi il mio modo di condurre i corsi si è evoluto.
Non per una scelta strategica, ma per necessità: il mio corpo mi ha chiesto di rallentare, e lo ha fatto in modo piuttosto brusco.
Questa condizione mi ha costretto a pormi una domanda semplice e scomoda:
che tipo di istruttore voglio essere oggi?
Il Metodo Wim Hof non è mai stato, almeno per come lo intendo io, una ricerca di prestazione o di resistenza estrema.
Non serve a creare esseri sovrumani capaci di stare ore nel ghiaccio né a inseguire record personali.
Ogni volta che qualcuno mi dice “wooo, ho fatto dieci minuti nel ghiaccio”, è un po’ come uscire dalla palestra urlando “wooo, ho sollevato venti chili”.
Allo stesso tempo, non è nemmeno un percorso spirituale o emotivo fine a sé stesso.
Il Metodo si muove in una zona di confine: utilizza pratiche sul corpo per allenare ascolto, regolazione e presenza, con effetti che vanno ben oltre il piano fisico.
Fare dieci minuti in acqua fredda ha poco senso se poi, nella vita quotidiana, non siamo in grado di usare quello stesso stato di presenza quando siamo sotto pressione, in conflitto o in difficoltà.
Se reagiamo a chi ci provoca, se perdiamo centratura, se non scopriamo che quella forza mentale ed emotiva va usata nelle altre ventitré ore e cinquanta minuti della giornata.
Se il lavoro si ferma all’euforia del momento, resta un’esperienza intensa ma isolata.
Utile, forse, ma incompleta.
Per questo, nei percorsi più lunghi, ho scelto di scendere più in profondità.
Non cambiando la struttura dei corsi, che resta chiara e progressiva: teoria, pratica, integrazione.
Ma ampliando il campo di lavoro.
Il corpo è il primo livello di esposizione allo stress.
Ma molti automatismi che emergono sotto pressione non sono fisici: sono relazionali, emotivi, legati al modo in cui stiamo con gli altri e con noi stessi.
Nei corsi weekend ho quindi iniziato a integrare momenti di lavoro sulla presenza e sulla relazione, come naturale prosecuzione del lavoro sul sistema nervoso.
Non come aggiunta spettacolare, ma come estensione coerente.
Questo non trasforma il corso in un ritiro emotivo.
Non promette guarigioni né lavora su etichette come “rilascio dei traumi”.
È possibile guidare queste esperienze in modo diverso:
meno performance, più presenza e ascolto.
Non un picco di euforia, ma un lavoro di attenzione profonda, sul corpo e su ciò che la mente è in grado di fare.
Il ruolo dell’istruttore, per come lo intendo io, resta quello di facilitatore:
creare un contesto strutturato e sicuro in cui le persone possano incontrare ciò che è già presente, senza forzature. Oggi sento che questo modo di guidare è più vicino a chi sono. Meno dimostrazione, più presenza. Meno performance, più responsabilità.
So bene che non è un approccio per tutti. È un lavoro per chi è disposto a restare nel disagio, non solo nel ghiaccio ma anche fuori dal ghiaccio.
Chi sente risuonare questo modo di lavorare troverà nei corsi lo spazio giusto.
Gli altri, legittimamente, cercheranno altrove. Ed è giusto così: c’è spazio per tutti.
Alla breccia miei prodi, un altro assalto!